La donna il lavoro e la cura luci e ombre
La sintesi di mani, testa, cuore costituisce il punto di forza della cura
Quando si pensa al lavoro di cura, il più delle volte lo si identifica con una serie di attività materiali, facendo coincidere la cura con l’accudimento. Altre volte prevale il riferimento a una dimensione affettiva, per cui cura significherebbe empatia, amore, compassione e così via. Sembra dunque che “cura” abbia a che fare solo con le mani e il cuore, quando invece implica un evidente lavoro di testa, un pensiero.
È proprio questa sintesi di mani, testa, cuore che costituisce il punto di forza della cura e che è essenziale soprattutto quando la si esercita in quanto professione specifica, come nel caso dell’assistenza familiare o infermieristica.
C’è, quindi, un “pensiero della cura” che va messo in luce, sia per far emergere la dignità di chi lo svolge professionalmente, sia per apprezzarne la valenza sociale e politica, ancora poco riconosciuta. Mentre, infatti, la nostra sta diventando una “società della cura”, per l’evidente quota di disagio, percepito o reale, diffuso in tutti gli ambienti dell’esistenza quotidiana, che reclama un’attenzione specifica anche a livello istituzionale, non si registra un corrispondente impegno né per far sì che le professioni della cura abbiano quel riconoscimento sociale cui hanno diritto, né per ridurre la disuguaglianza di genere che ancora caratterizza la cura a livello familiare. È ancora sottovalutato anche il bagaglio di competenze e capacità relazionali maturate nel lavoro di cura che la donna potrebbe trasferire negli ambienti professionali, dove spesso si enfatizzano piuttosto competitività ed efficienza. Non è un caso che i diversi femminismi, pur avendo il merito di aver posto al centro la questione del rapporto tra la donna e la cura, si siano attestati su posizioni spesso diametralmente opposte, oscillando tra la sua denigrazione e la sua valorizzazione, soprattutto in relazione ai compiti materni. Nella realtà stessa della cura c’è senz’altro un chiaroscuro, un’ambiguità che spesso vanifica o riduce il discorso sul suo valore. La prima ombra è quella di un’immagine di cura associata alla donna in chiave esclusivamente oblativa, che ha prodotto da un lato processi di esclusione, dall’altro ha connotato l’idea stessa di cura di una valenza essenzialmente sacrificale, che finisce per privarla di quella potenzialità critica nei confronti delle derive individualistiche della modernità. Si tratta invece di intendere la cura come reciprocità e come circolarità, nel senso che è capace di cura solo chi si sente, sia pure solo virtualmente, bisognoso di cura.
È infatti capace di donarsi solo chi si riconosce a sua volta oggetto di dono. Il paradigma del dono su questo punto è illuminante, in quanto ruota attorno alla circolarità: vi è una reciprocità dinamica, nella quale ognuno è sempre donatore e donatario, fin dal dono originario della nascita.
Come ha affermato Elena Pulcini, questa prospettiva consente di passare dall’essere soggette alla cura ad essere soggetti di cura [1] : ossia non più assoggettate passivamente a un destino di rinuncia e di esclusione, ma soggetti che vedono nella cura lo strumento per ridefinirsi come persone relazionali e ospitali. Il perno di questa visione è l’evidenza della nostra essenziale condizione di vulnerabilità, che ci rende bisognosi gli uni degli altri. Come ha mostrato la recente pandemia, il desiderio “immunitario” di chi pensa di chiudersi in un recinto di autosufficienza è illusorio, ancor di più in un mondo globalizzato. Ma anche una idea di cura come atto unilaterale di un soggetto femminile sempre dimentico di sé, forte della sua dedizione nei confronti di altri soggetti bisognosi può finire per diventare autodistruttivo. Occorre dunque un discorso sulla cura, sia esso o no associato alla donna, che tenga conto della comune vulnerabilità non come qualcosa da sradicare, ma come un ineludibile dato da recepire. Sul piano politico questo ha chiare implicazioni. La sfida con la quale il concetto di eguaglianza deve misurarsi è rappresentata dalla dipendenza, non soltanto di chi non è autonomo, come i bambini, gli anziani, i malati, i disabili, ma anche di coloro che prestano cura a persone dipendenti, i quali proprio per questo vivono una condizione di vulnerabilità e dipendenza derivata. Come afferma Eva Kittay, non basta quindi assicurare i beni sociali primari, come i diritti e le libertà fondamentali, ma occorre introdurre un ulteriore principio di giustizia, che assegni a ciascuno quanto gli spetta in base ai suoi bisogni di cura e alle sue capacità di prestare cura, in modo da garantirgli un sostegno adeguato [2].
Un’altra ombra che si proietta sulla cura è quella del cosiddetto “trapianto di cuore globale” [3], il fenomeno per cui molte donne lasciano la cura della propria famiglia nel povero Paese di origine, per prendersi cura di famiglie estranee in Paesi economicamente più ricchi.
Il vuoto di cura lasciato in patria è la condizione per riempire un altro vuoto di cura nel luogo di arrivo, quello di madri impegnate professionalmente, che faticano a conciliare la “doppia presenza”, del dentro e fuori casa. Anche la tecnologia, che ha prodotto innegabili benefici nel ridurre la fatica del lavoro di cura (elettrodomestici, domotica) può però diventarne una minaccia, così come il sistema mercantilistico: androidi infermieri e maggiordomi/assistenti virtuali non potranno mai sostituire la relazione umana; inoltre, la facilità nel reperire ausili e prodotti offerta dalla società dei servizi, con la possibilità che “tutto si può comprare” non può rendere superflua quell’attenzione personale, insostituibile non nella sua funzione materiale, ma per la sua dimensione simbolica, ossia per i valori che veicola. La domesticità è infatti la cornice della vita quotidiana, dove, nonostante quella che è stata definita “ipertrofia del transito”, ovvero la sempre crescente mobilità delle persone, si può godere di parole, gesti relazioni decisivi per il benessere individuale, in cui gioca un ruolo essenziale la capacità femminile per dar forma a un ambiente [4]. Una cura che spesso si estende al di là di quanto è necessario per il sostentamento e si prolunga nella ricerca del dettaglio che esprime attenzione, sensibilità per la bellezza, premura nei confronti degli altri. Clara Sereni la ha definita casalinghitudine, una esigenza di protezione e di armonia: “perché nella mia vita costruita a tessere mal tagliate, nella mia vita a mosaico, la casalinghitudine è un angolino caldo”. L’autrice, nel tracciare un’autobiografia dove affetti e riti del pasto evolvono assieme, esprime anche un desiderio di stare bene e di far stare bene, che è eccedenza: “perché non sopporto fettina e insalata, perché è impossibile una vita solo funzionale, senza piccoli gesti di agio, senza un odore di cura, senza una qualche ricchezza nella mia vita” [5]. Rinunciare a questa dimensione è per la donna solo apparentemente un gesto di libertà, perché proprio da qui comincia la possibilità di vivere il quotidiano con pienezza, senza fughe in avanti o rimpianti all’indietro e di affermarsi come soggetti essenzialmente relazionali. Ma le va assicurata anche la possibilità di realizzare tutto ciò e questo è un compito che ricade su tutti noi.
1. E. Pulcini, Soggette al dono, soggetti di dono. Riflessioni su dono e soggettività femminile, in F. Brezzi –M. T. Russo (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 78-95.
2. Cfr. E. Kittay, La cura dell’amore, Vita e Pensiero, Milano 2010.
3. A. R. Hochschild, Love and Gold, in B. Ehrenreich, A. R. Hochschild (a cura di), Global Woman. Nannies, Maids, and Sex Workers in the New Economy, Henry Holt and Company, New York 2002, pp. 15-30.
4. M.T. Russo, A. Argandoña, R. Peatfield, (a cura di), Happiness and Domestic Life. The Influence of the Home on Subjective and Social Well-being, Routledge, London 2022.
5. C. Sereni, Casalinghitudine, Einaudi, Torino 1987.
Maria Teresa Russo
Università Roma Tre